La felicità è tutt’altro che uno stato emotivo passeggero, è un viaggio continuo alla ricerca del nostro benessere, della nostra realizzazione personale e del significato della nostra vita.
“La felicità è una forma di coraggio” diceva Holbrook Jackson.
Potremmo riformulare sostenendo che “la felicità” sia una scelta o per meglio dire tante piccole scelte che possiamo compiere nel quotidiano, talvolta lasciando andare ciò che è superfluo, altre volte mollando l’illusione di poter controllare gli eventi, altre ancora accogliendo e attraversando il mare mosso emotivo che agita il nostro mondo interno. La felicità è tutt’altro che uno stato emotivo passeggero, è un viaggio continuo alla ricerca del nostro benessere, della nostra realizzazione personale e del significato della nostra vita.
Molte persone credono che la felicità sia uno stato d’animo che derivi da ciò che è esterno a noi, o da ciò che abbiamo, in realtà il benessere deriva dalla nostra interiorità ed è profondamente dipendente dal nostro modo di pensare, agire e relazionarci con noi stessi e con gli altri, nonché dal nostro rapporto con le emozioni che sperimentiamo e dalla capacità di riconoscerle, farne esperienza, esprimerle e regolarle. In sostanza la felicità è qualcosa di più della somma di momenti di gioia, è il risultato di un equilibrio tra la mente ed il corpo, i nostri bisogni, le nostre emozioni, il grado di coinvolgimento che riusciamo a sperimentare nelle relazioni con gli altri, il nostro grado di realizzazione personale.
Capita sovente, quando si sperimentano movimenti emotivi disturbanti, di rivolgere l’attenzione all’esterno, cercando “il capro espiatorio” fuori, in qualcosa, qualcuno o qualche evento. Questa tendenza a cercare fuori da noi “le colpe” di ciò che ci accade, ci allontana dal contatto autentico con noi stessi e non fa altro che alimentare la rabbia, la tristezza, la delusione, la frustrazione, il risentimento e tutto ciò che di disturbante ci ha attivati.
Affrontare delusioni, dolori, perdite, può farci sentire come in balia delle onde del mare quando è mosso, a volte proprio come se fossimo nel bel mezzo di una tempesta. Le onde si susseguono senza sosta, fatichiamo a prendere fiato, cerchiamo di nuotare controcorrente, in alcuni momenti andiamo in apnea e in altri le onde ci sovrastano. Ci sentiamo sfiniti, senza forze, crediamo di non farcela, di non poter resistere ancora.
Qualche anno fa, in una calda giornata d’agosto, mi capitò di fare un tuffo da una barca. Ero in mezzo al mare, a decine di metri dalla riva, c’era tanta corrente, il mare era quel mosso che basta per trascinare velocemente con la sua corrente qualsiasi cosa non fosse ben ancorata, compresa me. Mi ritrovai in pochi secondi lontanissima dalla barca da cui mi ero tuffata, intorno avevo solo acque agitate e una montagna che cadeva a strapiombo sul mare. Iniziai a nuotare con tutte le mie forze per raggiungere la barca, ma più nuotavo più mi allontanavo dalla mia ancora di salvezza. Ero agitata, faticavo a respirare perché ero anche molto affannata, invano urlavo per dire alle persone che si trovavano sulla barca di tornare indietro per venire a prendermi, ma non potevano sentirmi, a malapena mi vedevano, o almeno questa era la mia percezione. Ad un certo punto mi resi conto che stavo nuotando controcorrente, con il solo risultato di ritrovarmi sempre allo stesso punto, ovvero lontanissima dalla barca. Mi fermai, iniziai a nuotare sul posto e a portare la mia attenzione sul mio respiro, feci “il morto” e rivolsi lo sguardo al cielo lasciandomi trascinare dalla correte e al contempo recuperando fiato ed energie. Quasi diventò piacevole. Ad un certo punto ritornai a nuotare sul posto e vidi la barca a pochi metri da me. Credevo nessuno mi avesse sentita né vista, credevo che non ce l’avrei fatta, invece ero solo nel panico. Fui grata a me stessa per essermi fermata, per aver respirato e recuperato energie, per aver smesso di oppormi a ciò che mi stava accadendo, anche perché non avrei di certo potuto fermare le onde del mare e la sua corrente, né “combatterle”. Capii tante cose da quell’esperienza e fu una metafora per tanti altri momenti di vita.
Ecco, immaginate di essere nella mia stessa situazione e che il mare mosso siano gli eventi della vita e la vostra emotività che vi mette in difficoltà, per un attimo smettete di combatterli, di cercare di controllarli o di evitarli, fermatevi, respirate e semplicemente osservate e notate cosa vi sta accadendo, nella mente e nel corpo.
Come ci insegna il neurologo e psichiatra Viktor E. Frankl, sopravvissuto ai campi di concentramento, la ricerca e l’attribuzione del significato a ciò che ci accade e alla propria vita è ciò che ci può permettere di sopravvivere anche nelle situazioni più tragiche e difficili. Frankl nel suo libro “Uno psicologo nei lager” ci insegna quanto sia fondamentale assumersi la piena responsabilità della propria esistenza, di ogni aspetto della propria esistenza, anche nelle circostanze più dolorose. Se qualcosa ci fa soffrire sarà importante prenderne atto, accogliere la sofferenza e le emozioni che la caratterizzano e compiere passi il più possibile consapevoli verso un cambiamento che ci permetta di andare avanti, trasformando quella stessa sofferenza in un pezzo di memoria preziosa e indispensabile per riconoscersi nella propria integrità.
La parola responsabilità ha a che fare con la capacità di rispondere alle situazioni, all’abilità nel rispondere e reagire a ciò che ci accade, non perché siamo chiamati a farlo ma perché ne siamo in grado. Il dolore nelle sue molteplici sfaccettature può diventare parte della nostra identità e della nostra vita, ma per diventarlo deve essere vissuto, significato, trasformato e integrato con ciò che siamo. Fare ciò richiede un gran coraggio, perché il cambiamento spaventa, pur promettendo guarigione e crescita. Quel dolore è qualcosa che ci turba ma che al contempo conosciamo e dunque ci rassicura, e trasformarlo, significarlo diversamente, viverlo diversamente, comporta il lasciar andare ciò che conosciamo per aprirci al nuovo e a ciò che non possiamo controllare. E’ solo attraverso questo atto di coraggio, atto che ci permette di mollare le redini dell’illusione del controllo e abbracciare il cambiamento, i cambiamenti, che possiamo trasformare il dolore in una fonte di rinnovamento.
Non sempre tutto ciò si può fare in autonomia, a volte il coraggio sta nel chiedere aiuto, in qualche caso anche ad un professionista, perché ci guidi, sostenga e dia prospettive e letture diverse, perché ci faccia scorgere significati anche laddove credevamo non ci fossero. Nessuno può controllare gli eventi, ma ciascuno di noi ha in se le risorse per farvi fronte nel modo migliore e più funzionale possibile, ciascuno di noi ha la possibilità di sceglierne, se vuole, il significato e il senso ed è in questi che spesso si “ nasconde il segreto della felicità”. Quest’ultima si può sperimentare non con la formula: “Se non fosse successo…..” Ma con la formula: “Nonostante sia successo….”.
Ed infine qualche buona prassi per coltivare benessere e “felicità”, non in ordine di importanza:
– Praticate almeno 5 minuti al giorno di respirazione consapevole
– Muovete il vostro corpo, non per forza facendo esercizio fisico strutturato, ma integrando il movimento nelle vostre azioni quotidiane: per esempio mentre attendo che la pasta si cuocia, faccio stretching con le braccia e allungo la spina dorsale
– Allenate la mente con cruciverba, giochi cognitivi, etc
– Iniziate nuove attività e fate nuove esperienze: per esempio praticare un nuovo hobby
– Trascorrete tempo di qualità con le persone a te care
– State a contatto con la natura e godete della luce del sole quando ci sono belle giornate
– Migliorate le strategie di gestione dello stress e di regolazione emotiva
– Coccolatevi ogni volta che ce n’è la possibilità
– Pratica gratitudine
– Meditate o pregate se credenti
E se tutto ciò non dovesse bastare forse avete bisogno di qualcuno che vi guidi perché Il cammino verso la maturità e la realizzazione di Sè segue strade faticose e spesso tortuose e a volte capita di perdersi sperimentando disagio e sofferenza.